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La profezia di Calvino: «Noi siamo software» | DReporter
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Digital News

La profezia di Calvino: «Noi siamo software»

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Milano, 1 luglio 2020 – 11:03

L’autore delle Lezioni americane, ragionando sulle virtù della leggerezza, aveva anticipato la trasformazione della società e il «primato del software sul hardware» riprendendo un’intuizione di Fermi

di Massimo Sideri

Historia magistra innovazione. Nel sito dell’Università di Chicago si trovano alcuni brevi appunti, a macchina e a mano, di Enrico Fermi. Si tratta di una testimonianza importante: in quei fogli si possono leggere i semplici programmi informatici che il premio Nobel per la Fisica si scriveva da solo a scopi scientifici, una riprova che, già allora, Fermi avesse compreso come scienza e supercalcolo avrebbero aperto nuove strade. Sempre a Fermi si deve, seppure indirettamente e con un salto temporale di decenni, il fatto che il primo collegamento dall’Italia con Arpanet — la progenitrice di internet — fosse avvenuto nel 1986 da Pisa. Per inciso, anche se è un caso, solo l’anno prima Italo Calvino ci aveva lasciato gli appunti sulla leggerezza del software. Nella città toscana Fermi aveva superato brillantemente il colloquio per la Normale a diciassette anni. Fu così che nel dopoguerra scrisse al rettore dell’Università pisana per caldeggiare l’acquisto di un supercomputer. In realtà, negli anni Cinquanta, Pisa, Lucca e Livorno avrebbero voluto un sincrotrone. Erano già stati allocati 150 milioni di lire, quando Roma sponsorizzò la più vicina Frascati. Certe cose non cambiano mai. Ma fu un bene: i soldi vennero usati per specializzarsi nella datazione con il Carbonio 14 e per il Centro Studi Calcolatrici Elettroniche. Quel nucleo avrebbe poi dato vita alla Calcolatrice elettronica pisana. Anche se noi ce la dimentichiamo, la lezione della storia è per certi versi facile: gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione sono come quegli strani pesci capaci di auto-ibernarsi nel fango per anni. In attesa della pioggia.

Si chiamano dipnoi, veri e propri fossili viventi dell’era paleozoica che in alcune aree dell’Africa finiscono nei mattoni di fango con cui vengono costruite le capanne. Restano lì con un battito cardiaco prossimo alla morte e un organo simile a un polmone. E la pioggia ogni tanto arriva a ravvivarli. Si sono adattati all’impossibilità di migrare durante la siccità. È il caso — volendo trovare un esempio di cronaca concreto — dell’eccellente risultato ottenuto in questi giorni con i supercomputer del Cineca e il software Dompé Exscalate4CoV che hanno permesso di selezionare un farmaco generico per l’osteoporosi come molecola efficace nel ridurre la replicazione virale del Sars-Cov-2. Il problema è se gli acquazzoni trovano solo il fango. Come capita spesso in tanti altri settori. Per questo motivo, avendo scoperto che i nostri «dipnoi dell’informatica» non sono morti grazie a Fermi, Calvino, l’Olivetti e ad altri mille senza nome, dovremmo cercare di farci piovere sopra in tutte le maniere. A costo di portare l’acqua a braccia. Potremmo ricordare, d’altra parte, che l’evoluzione del digitale prende spunto anche dai nostri Marconi, Meucci, Torricelli a voler risalire al Seicento. Ma per la farmaceutica e il biotech varrebbe un discorso molto simile. Come anche per le tecnologie spaziali: i dipnoi sono rimasti in circolazione, sta a noi non lasciarli morire. A noi e agli investimenti di natura keynesiana (da non confondere con lo statalismo) che il governo e l’Europa stanno approntando in questo momento di crisi.

La scienza è più resiliente di quanto immaginiamo, bisognerebbe tenerne conto nel preparane un bilancio. Richiede tempo ma preserva i suoi effetti a lungo. Alimenta passione e competenze. Semina (a Pisa, ancora oggi, vengono gestiti i domini della Rete). Genera idee. Come, appunto, la profezia di Calvino: «Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza senza la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi». È vero che le profezie appaiono spesso più un esercizio a posteriori, un’intuizione che ha più chi legge guardando al passato che chi scrive. Eppure quella di Italo Calvino sembra proprio superare la «proof of concept», la prova del concetto come si usa nella scienza. In quelle Lezioni americane, come vennero chiamate in seguito dalla moglie di Calvino riprendendo una battuta che spesso faceva al mattino Pietro Citati («come vanno le tue lezioni americane?»), sembra esserci già la visione di tutto il futuro che stiamo vivendo: Google, la crisi di Nokia, l’esplosione del cloud, il declino dell’industria pesante, la salvezza digitale del lockdown. Talvolta, quasi fosse un difetto ottico della nostra capacità di leggere il mondo, trasformiamo tutto, anche le grandi idee, in pregiudizio: colmiamo i nostri vuoti con le intuizioni, rimanendone imprigionati. Non che le previsioni non esistano. Morto nel 2013, Douglas Engelbart, padre di quella rotellina, al secolo il mouse, che ha cambiato per sempre l’interazione uomo-macchina, aveva predetto che «la rivoluzione digitale sarà di gran lunga più importante dell’invenzione della scrittura e anche della stampa». Oggi la chiamiamo iperstoria (copyright Floridi). E aveva aggiunto: «In venti o trent’anni potremo portare in tasca tutta la conoscenza del mondo».

Ancora più stupefacenti risultano gli scritti di J. C. R. Licklider. La sua figura, seppure sconosciuta ai più, è stata da tempo beatificata nella comunità californiana. Nel 1961 lo scienziato che al tempo lavorava per la società Bolt, Beranek and Newman (la stessa Bbn che tornerà nel test del 1969 considerato la nascita della Rete) iniziò a studiare per cercare di comprendere come costruire una sorta di «biblioteca del futuro», un progetto finanziato dalla Ford Foundation. Scrisse Licklider agli inizi degli anni Sessanta: «Dobbiamo iniziare a rifiutare lo stesso schema di un libro fisico». E, ancora: «Le pagine stampate come strumento per la preservazione della conoscenza nel lungo termine verranno superate». Fu lui ad avere la visione di una sostituzione dei libri con i computer che sarebbero stati collegati in un «network». Il destino ci mise lo zampino portando Licklider a guidare Arpa nel 1963. Altra previsione strabiliante: nella autobiografia pubblicata nel 1919 di Nikola Tesla, acerrimo nemico di Thomas Edison, si legge di un sistema mondiale di trasmissione energetica senza fili che avrebbe permesso «l’interconnessione tra le preesistenti stazioni del telegrafo di tutto il mondo; l’instaurazione di un servizio telegrafico governativo del tutto segreto; l’interconnessione di tutte le stazioni; la distribuzione universale di notizie». Oggi lo chiamiamo Internet. «La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi (…) ma come i bits di un flusso di informatica». Oggi la chiamiamo Industria 4.0. Sempre Calvino. La fabbrica che così tanto ha dato alla storia politica e sociale dell’uomo va solo ripensata rielaborando nuovi miti in un equilibrio continuo tra software e hardware, pensiero e azione. Forse è questo l’esercizio da fare: cercare i dipnoi, salvarsi e nutrirli, piuttosto di voler inseguire intuizioni che rischiano di dirci ciò che ci vogliamo sentire dire. Alla fine la grandezza di Calvino si può ritrovare anche in questo: la sua lezione era sul software e la sua capacità di rendere leggero anche l’hardware.

1 luglio 2020 | 11:03

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